left n. 10, 9 marzo 2018
La sinistra nel vuoto di pensiero
Le elezioni del 4 marzo hanno lasciato un paese traumatizzato e forse ingovernabile: Partito democratico ai minimi storici; centro-destra a trazione leghista; exploit del Movimento 5 Stelle. Il terremoto politico che ha travolto il paese è la conseguenza del terremoto sociale che ha investito le classi popolari a causa delle politiche di austerità. Dieci anni di crisi lasciano il segno: impoverito e deluso, l’elettorato si è rivolto a quelle forze che sdegnosamente vengono definite come “populiste” o antisistema, e al Movimento 5 Stelle in particolare.
Populisti dunque. Ma proprio da questa parola possiamo partire per comprendere ciò che è successo. Quando le forze politiche della sinistra, che nelle lotte e nelle conquiste sociali del Novecento hanno la loro origine e traggono la loro ragion d’essere, abbandonano quei riferimenti per volgersi a servire ristrettissime élite economiche e finanziarie, è ovvio che lasciano una prateria al cosiddetto “populismo”. Perché esse diverranno così, certo, affidabili e responsabili agli occhi di quel sistema di potere, ma saranno ritenute irresponsabili da quella parte della popolazione che subisce le politiche di austerità. Di qui la loro sconfitta senza appello.Indubbiamente il potere di cui dispongono le oligarchie nazionali e internazionali è immenso e mette paura: esse si impongono tramite il controllo di giornali e mezzi di comunicazione, il finanziamento della politica, l’occupazione delle funzioni statali, degli organismi internazionali e di tutti i centri di potere, anche di quelli espressione della democrazia. Perfino l’andamento dell’economia e i movimenti della finanza, come mostra il caso della Grecia, possono essere usati come arma di controllo sociale. Eppure, se da queste elezioni possiamo trarre una lezione, è che queste oligarchie non sono onnipotenti: anzi, il fatto che queste forze abbiamo combattuto la loro battaglia all’insegna della demonizzazione del Movimento 5 Stelle, e che questa demonizzazione abbia avuto l’effetto di gonfiare i loro consensi, indica che la loro presa sulla società vacilla. Il crollo dei due partiti che definivano gli assetti politici del paese (Pd e Fi) è dunque anche la sconfitta di questo sistema di potere nel suo insieme. In particolare hanno subito uno smacco quei mezzi d’informazione che, abbandonando la loro funzione appunto informativa, si sono piegati ad essere strumenti di disinformazione. È in atto in sostanza un processo denso di rischi, ma anche di opportunità, che è mosso dalla necessità di un profondo cambiamento e che non può essere arrestato da furbizie o tattiche di corto respiro. Questo processo ha travolto anche le forze della sinistra tradizionale: per esse, la scelta di servire quelle oligarchie è stata una scelta suicida. Infatti, di fonte all’urgenza di un cambiamento, non è a loro che l’elettore si è rivolto.
Ricordare tutto questo è necessario, ma non è sufficiente. Il misero risultato della nova formazione Liberi e Uguali accompagna infatti la sconfitta del Partito Democratico. È dunque l’intero gruppo dirigente della “sinistra” che è stato sconfessato dai propri elettori. Il fatto che questa classe dirigente, da essere strumento per l’emancipazione delle classi popolari si sia da tempo volta al servizio delle élite, non può essere cancellato da ripensamenti dell’ultimo momento. Le radici di questo disastro, più che nella contingenza e nei limiti di questo o quell’esponente politico, vanno pertanto ricercate in un percorso storico, indubbiamente drammatico, che ha le sue radici nell’incapacità dei dirigenti del vecchio Partito comunista di elaborare un pensiero politico in grado di superare la sconfitta del comunismo e proporre una nuova visione per il progresso sociale e civile del paese. Il frettoloso abbandono, nel 1991, del nome Partito comunista, le nuove e inconsistenti denominazioni (dapprima Partito democratico della sinistra, poi Democratici di sinistra, infine Partito democratico) tradiscono il vuoto di pensiero di un gruppo dirigente che, per giungere al governo del paese, non ha saputo far meglio che agganciarsi a strutture di potere in sfacelo: la chiesa cattolica, con la scelta di formare un partito unico con gli ex democristiani; i centri di potere economico e finanziario responsabili della crisi, con la fedeltà all’ideologia neoliberista. L’era di Renzi va dunque vista in continuità con le scelte politiche degli ex comunisti. In quest’ultimo periodo abbiamo assistito alla chiusura dello storico quotidiano l’Unità, al tentativo di liquidare definitivamente la famiglia politica degli ex comunisti (che li ha condotti alla scissione), come anche a decisioni quali l’abolizione di quel che restava dell’articolo 18: quest’ultima scelta, in particolare, è indicativa sia della definitiva recisione del legame tra il partito e le forze del movimento operaio, sia della fedeltà ai dogmi del neoliberismo. Tutto questo è molto di più di un errore politico di cui Renzi sarebbe il responsabile: è l’estrema conseguenza del percorso politico iniziato almeno con lo scioglimento del PCI. Una scissione pre-elettorale non può certo invertire dinamiche storiche di questa portata.
Indubbiamente, già da tempo, il pensiero politico della sinistra (ampiamente ispirato al marxismo) aveva mostrato i suoi limiti. Al centro di quel pensiero vi era l’idea che per una completa realizzazione umana i bisogni materiali di tutti dovessero essere soddisfatti; ma cosa c’è oltre la soddisfazione dei bisogni? L’elaborazione del fallimento del comunismo nei paesi dell’Est, come anche il consolidamento delle conquiste materiali nell’Occidente capitalistico, avrebbero richiesto una ricerca teorica che i dirigenti comunisti di allora non ebbero l’intelligenza di affrontare. Abbandonare le proprie radici, piuttosto che rinnovarle, ha dunque condotto agli esiti devastanti che oggi osserviamo. È certamente necessaria, ovunque e senza incertezze, la difesa di quelle fasce di popolazione gettate nell’insicurezza materiale e attaccate nei loro diritti dalle politiche di austerità. Oltre i bisogni vi è la realizzazione delle esigenze: senza un nuovo pensiero sulla società e sugli esseri umani, e senza una ricerca su ciò che fa star bene o fa star male le persone oltre il soddisfacimento dei bisogni di base, nessuna sinistra, potrà mai essere ricostruita.
I gruppi dirigenti della sinistra non sono stati capaci di elaborare un pensiero politico nuovo. Gli ex comunisti del Pd, pur di arrivare al governo, hanno cercato l’alleanza con la Chiesa e i centri di potere neoliberisti responsabili della crisi.
di Andrea Ventura
Le elezioni del 4 marzo hanno lasciato un paese traumatizzato e forse ingovernabile: Partito democratico ai minimi storici; centro-destra a trazione leghista; exploit del Movimento 5 Stelle. Il terremoto politico che ha travolto il paese è la conseguenza del terremoto sociale che ha investito le classi popolari a causa delle politiche di austerità. Dieci anni di crisi lasciano il segno: impoverito e deluso, l’elettorato si è rivolto a quelle forze che sdegnosamente vengono definite come “populiste” o antisistema, e al Movimento 5 Stelle in particolare.
Populisti dunque. Ma proprio da questa parola possiamo partire per comprendere ciò che è successo. Quando le forze politiche della sinistra, che nelle lotte e nelle conquiste sociali del Novecento hanno la loro origine e traggono la loro ragion d’essere, abbandonano quei riferimenti per volgersi a servire ristrettissime élite economiche e finanziarie, è ovvio che lasciano una prateria al cosiddetto “populismo”. Perché esse diverranno così, certo, affidabili e responsabili agli occhi di quel sistema di potere, ma saranno ritenute irresponsabili da quella parte della popolazione che subisce le politiche di austerità. Di qui la loro sconfitta senza appello.Indubbiamente il potere di cui dispongono le oligarchie nazionali e internazionali è immenso e mette paura: esse si impongono tramite il controllo di giornali e mezzi di comunicazione, il finanziamento della politica, l’occupazione delle funzioni statali, degli organismi internazionali e di tutti i centri di potere, anche di quelli espressione della democrazia. Perfino l’andamento dell’economia e i movimenti della finanza, come mostra il caso della Grecia, possono essere usati come arma di controllo sociale. Eppure, se da queste elezioni possiamo trarre una lezione, è che queste oligarchie non sono onnipotenti: anzi, il fatto che queste forze abbiamo combattuto la loro battaglia all’insegna della demonizzazione del Movimento 5 Stelle, e che questa demonizzazione abbia avuto l’effetto di gonfiare i loro consensi, indica che la loro presa sulla società vacilla. Il crollo dei due partiti che definivano gli assetti politici del paese (Pd e Fi) è dunque anche la sconfitta di questo sistema di potere nel suo insieme. In particolare hanno subito uno smacco quei mezzi d’informazione che, abbandonando la loro funzione appunto informativa, si sono piegati ad essere strumenti di disinformazione. È in atto in sostanza un processo denso di rischi, ma anche di opportunità, che è mosso dalla necessità di un profondo cambiamento e che non può essere arrestato da furbizie o tattiche di corto respiro. Questo processo ha travolto anche le forze della sinistra tradizionale: per esse, la scelta di servire quelle oligarchie è stata una scelta suicida. Infatti, di fonte all’urgenza di un cambiamento, non è a loro che l’elettore si è rivolto.
Ricordare tutto questo è necessario, ma non è sufficiente. Il misero risultato della nova formazione Liberi e Uguali accompagna infatti la sconfitta del Partito Democratico. È dunque l’intero gruppo dirigente della “sinistra” che è stato sconfessato dai propri elettori. Il fatto che questa classe dirigente, da essere strumento per l’emancipazione delle classi popolari si sia da tempo volta al servizio delle élite, non può essere cancellato da ripensamenti dell’ultimo momento. Le radici di questo disastro, più che nella contingenza e nei limiti di questo o quell’esponente politico, vanno pertanto ricercate in un percorso storico, indubbiamente drammatico, che ha le sue radici nell’incapacità dei dirigenti del vecchio Partito comunista di elaborare un pensiero politico in grado di superare la sconfitta del comunismo e proporre una nuova visione per il progresso sociale e civile del paese. Il frettoloso abbandono, nel 1991, del nome Partito comunista, le nuove e inconsistenti denominazioni (dapprima Partito democratico della sinistra, poi Democratici di sinistra, infine Partito democratico) tradiscono il vuoto di pensiero di un gruppo dirigente che, per giungere al governo del paese, non ha saputo far meglio che agganciarsi a strutture di potere in sfacelo: la chiesa cattolica, con la scelta di formare un partito unico con gli ex democristiani; i centri di potere economico e finanziario responsabili della crisi, con la fedeltà all’ideologia neoliberista. L’era di Renzi va dunque vista in continuità con le scelte politiche degli ex comunisti. In quest’ultimo periodo abbiamo assistito alla chiusura dello storico quotidiano l’Unità, al tentativo di liquidare definitivamente la famiglia politica degli ex comunisti (che li ha condotti alla scissione), come anche a decisioni quali l’abolizione di quel che restava dell’articolo 18: quest’ultima scelta, in particolare, è indicativa sia della definitiva recisione del legame tra il partito e le forze del movimento operaio, sia della fedeltà ai dogmi del neoliberismo. Tutto questo è molto di più di un errore politico di cui Renzi sarebbe il responsabile: è l’estrema conseguenza del percorso politico iniziato almeno con lo scioglimento del PCI. Una scissione pre-elettorale non può certo invertire dinamiche storiche di questa portata.
Indubbiamente, già da tempo, il pensiero politico della sinistra (ampiamente ispirato al marxismo) aveva mostrato i suoi limiti. Al centro di quel pensiero vi era l’idea che per una completa realizzazione umana i bisogni materiali di tutti dovessero essere soddisfatti; ma cosa c’è oltre la soddisfazione dei bisogni? L’elaborazione del fallimento del comunismo nei paesi dell’Est, come anche il consolidamento delle conquiste materiali nell’Occidente capitalistico, avrebbero richiesto una ricerca teorica che i dirigenti comunisti di allora non ebbero l’intelligenza di affrontare. Abbandonare le proprie radici, piuttosto che rinnovarle, ha dunque condotto agli esiti devastanti che oggi osserviamo. È certamente necessaria, ovunque e senza incertezze, la difesa di quelle fasce di popolazione gettate nell’insicurezza materiale e attaccate nei loro diritti dalle politiche di austerità. Oltre i bisogni vi è la realizzazione delle esigenze: senza un nuovo pensiero sulla società e sugli esseri umani, e senza una ricerca su ciò che fa star bene o fa star male le persone oltre il soddisfacimento dei bisogni di base, nessuna sinistra, potrà mai essere ricostruita.