left n. 5, 2 febbraio 2018

Potere del neoliberismo: il lavoro rende poveri

La tanto esaltata, dal governo a guida Pd, riduzione del tasso di disoccupazione non dice nulla sul prezzo pagato dalla classe lavoratrice nel suo insieme, in termini di precarietà e di contrazione dei diritti, a causa delle politiche del lavoro culminate nel job act

di Andrea Ventura

Mentre governo e mezzi di comunicazione sbandierano come grande risultato delle politiche di questi anni la recente riduzione del tasso di disoccupazione, da circa un anno il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi (come anche il Fondo Monetario Internazionale) lamenta che i salari dei lavoratori non crescono abbastanza. Ma è proprio vero che la crisi occupazionale è in via di superamento? E per quale motivo il governatore della Bce, il cui mandato è il controllo dei prezzi, si preoccupa perché i salari dei lavoratori non crescono a sufficienza? La risposta a queste domande può aiutarci ad illustrare alcuni aspetti di quel ginepraio di contraddizioni che caratterizza l’attuale governo dell’economia.

A Draghi e all’aristocrazia finanziaria che lo sostiene non è mai importato alcunché delle condizioni di vita dei lavoratori. La teoria economica a cui fanno riferimento, il neoliberismo, è un’arma usata dalle classi dirigenti capitalistiche per distruggere le conquiste politiche, economiche e sociali dei lavoratori: se oligarchie sempre più ristrette continuano ad arricchirsi, e le classi medie e basse si impoveriscono, questo è il risultato della diffusione di quella teoria. Draghi piuttosto, pur seguendo ufficialmente il principio per il quale la moneta emessa dalla Banca centrale determina il livello dei prezzi, sa benissimo esso è un inganno: è interessato alla dinamica dei salari perché quest’ultima influenza i prezzi, e dato che tra gli obiettivi della Bce vi è un tasso di aumento dei prezzi del 2 per cento, se i salari sono fermi quell’obiettivo rimane lontano. Poco conta per tutti quanti noi, ovviamente, se i prezzi aumentano del’1,5 o del 2 per cento l’anno, eppure, ove l’aumento dei prezzi nella zona dell’euro dovesse raggiungere il 2 per cento, Draghi potrebbe affermare che quell’obiettivo a lungo inseguito è stato raggiunto. Questa però rimarrebbe solo la copertura di un fallimento pratico e teorico, che non cancella la sproporzione tra l’enorme quantità di moneta messa in circolazione dalla Bce in questi ultimi sei anni, e i risultati conseguiti in termini di crescita del Pil e, appunto, di aumento dei prezzi: quel 2 per cento, infatti, ora si avvicina, ora si allontana, mostrando che il rapporto tra le politiche monetarie della Bce e il livello dei prezzi è simile a quello tra la danza di uno stregone e l’attivo della pioggia.

La seconda questione da mettere in evidenza riguarda i presunti successi dei nostri governanti per la riduzione del tasso di disoccupazione: riduzione davvero lieve, di circa l’1,5 per cento negli ultimi tre anni, che mantiene quel tasso ancora superiore all’11 per cento. Va chiarito che, purtroppo, solo molto alla lontana il tasso di disoccupazione è un indicatore delle condizioni effettive del mercato del lavoro. La linea divisoria tra chi è occupato e chi non lo è, infatti, non è per nulla definita. Come è noto, il mondo del lavoro è popolato da posizioni estremamente diversificate: chi lavora poche ore, chi ha un posto stabile e sicuro, chi vive nella precarietà o sotto il ricatto del licenziamento etc. Ora, venendo alla definizione di occupato, secondo le statistiche dell’ISTAT sono considerati tali tutti coloro che “nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura”, oppure “hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente”. 

La definizione è nota, ma non si riflette abbastanza su di essa: se aiuto un amico per un trasloco in cambio di una pizza, o di un invito a cena, sarei “occupato”, così come lo è un ragazzo che, privo di ogni prospettiva occupazionale, ha passato, nella settimana di riferimento per la statistica, un’ora ad aiutare il padre nel negozietto di famiglia. Ovviamente sono “occupati” anche operai con contratti a tempo indeterminato, professori, professionisti, dirigenti, banchieri lautamente retribuiti. Il punto è che la tanto sbandierata riduzione del tasso di disoccupazione non ci dice nulla sul prezzo pagato dalla classe lavoratrice nel suo insieme, in termini di precarietà e di contrazione dei diritti, a causa delle politiche del lavoro degli ultimi anni, culminate nel job act. E infatti, pur essendo vero che il numero di occupati è tornato ai livelli del 2008, cioè di prima della crisi, da allora il “lavoro” ha subito una pesante contrazione: il numero di ore lavorate rimane inferiore a quelle di allora di circa il 7%, e mancano all’appello circa 1 milione e 300 mila posti di lavoro a tempo pieno, sostituiti appunto da lavori e lavoretti a tempo parziale svolti anche da giovani, i cui livelli di qualificazione professionale meriterebbero ben altro utilizzo. Di qui la ragione di quel preoccupante fenomeno per il quale, se un tempo era povero chi non riusciva a trovare lavoro, oggi può esserlo anche chi, tra un impiego mal pagato ed un altro, fatica tutti i giorni senza arrivare alla fine del mese. L’EUROSTAT ha valutato che, con oltre 10 milioni di poveri nel 2016 (quasi il doppio del periodo antecedente allo scoppio della crisi finanziaria), l’Italia è il paese europeo dove la miseria materiale, soprattutto tra i giovani, è numericamente più concentrata.

Anche le condizioni dei lavoratori a tempo indeterminato si sono progressivamente deteriorate: con la definitiva abolizione dell’articolo 18 nel settore privato, che prevedeva il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento non giustificato, nel cuore della classe lavoratrice è ormai presente lo spettro del licenziamento. La forza contrattuale dei lavoratori, anche di quelli più protetti, non è quella di una volta. Privi di tutele, abbandonati da quei partiti che storicamente sostenevano le rivendicazioni popolari, sempre più, in Italia come in Europa, i lavoratori volgono lo sguardo a forze politiche sdegnosamente definite come “populiste”, o di destra.

Precarietà, flessibilità, elevata disoccupazione, indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori: oggi, dopo decenni di neoliberismo, le classi dirigenti si preoccupano del logoramento del loro consenso, o della mancata crescita dei salari dei lavoratori. Quest’ultima ha anche effetti sulla crescita. Con l’impoverimento della massa della popolazione, infatti, si riduce la domanda di merci per le imprese, e la crescita del Pil rimane stentata anche per questo. Le politiche economiche neoliberiste, in sostanza, hanno alterato profondamente i rapporti di potere tra le classi sociali, distrutto la possibilità dei governi europei di sostenere la domanda e gli investimenti pubblici tramite la spesa, imposto sacrifici ed austerità. Governi e organismi internazionali talvolta rivendicano successi inesistenti, talaltra si lamentano della scarsa dinamica dei salari e della crescita insufficiente dei prezzi, o del Pil. È come se, dopo aver messo alla fame qualcuno, ci si preoccupasse perché non ha energie sufficienti per lavorare. Il pensiero economico dominante è sconnesso e dissociato, e non si vede alcuna prospettiva per una reale inversione di tendenza.