left n. 48, 2 dicembre 2017
La scalata del Monte dei fiaschi
Il declino della più antica banca italiana è iniziata nel 2007 in concomitanza della nascita del Partito democratico. A distanza di dieci anni, gli ex comunisti del Pd hanno ridotto in macerie il loro centro di potere senese (e toscano) e hanno perso il partito, consegnandolo agli ex democristiani. Cioè a Renzi
di Andrea Ventura
Sulla complessa vicenda del Monte dei Paschi di Siena, contrassegnata da inchieste giudiziariee morti sospette, abbiamo alcuni fatti certi, su altri possiamo fare delle ipotesi, su altri ancora dobbiamo fermarci alle coincidenze ed essere prudenti su ogni considerazione. Vi sono infine circostanze su cui il mistero è così fitto da impedirci ogni riflessione.
Non sappiamo anzitutto cosa abbia spinto il colosso Abn Ambro ad acquistare, nel 2006, una banca italiana nota già allora per il suo stato disastroso. Eppure il gruppo olandese scala l’Antonveneta spendendo 7,3 miliardi di euro. Quando Abn Ambro entra in difficoltà, intervengono tre grandi banche europee: nel maggio del 2007 lo spagnolo Santander, la Royal Bank of Scotland e il colosso belga Fortis acquistano Abn Ambro investendo 71 miliardi. Sono operazioni che coinvolgono, badate bene, le più grandi banche europee.
Il Banco di Santander, legato all’Opus Dei, è interessato al ramo italiano e sudamericano del gruppo olandese, che nel complesso paga 19 miliardi (di cui 6,6 per Antonveneta). Antonveneta però è vicina al fallimento, cosicché i dirigenti del Santander (Botin e Gotti Tedeschi, personaggio di cerniera di tutto l’affare noto per essere stato dal 2009 al 2012 presidente dello Ior) contattano il Monte dei Paschi di Siena per verificarne la disponibilità all’acquisto. L’operazione avviene tra il 2007 e il 2008 e si conclude rapidamente, cosicché il Santander può, con i soldi ricevuti dal Monte, perfezionare l’acquisto di Antonveneta girando la cifra incassata ad Abn Ambro. In sostanza, Mps versa 9 miliardi per una banca – che ha anche più di 7 miliardi di debiti nei confronti di Abn Ambro, i quali ora sono a suo carico – che era appena stata acquistata, senza pagarla, per 6,6 miliardi. Abn Ambro, Fortis e la Royal Bank of Scotland falliscono subito dopo. Santander si salva, forse perché al suo posto fallisce Mps.
Non è pensabile che operazioni di questa portata avvengano all’oscuro degli organi di vigilanza nazionali e internazionali. Più nello specifico, non è pensabile che l’operazione Mps-Antonveneta non sia stata vagliata dagli organi stessi, o che questi siano stati tenuti all’oscuro o messi di fronte al fatto compiuto. E c’è un particolare che merita attenzione: Mps accetta la condizione imposta dal Santander che l’Antonveneta venga acquistata senza effettuare la due diligence cioè senza il controllo dei conti della banca stessa. Cosicché si trova sul groppone, oltre ai 9 miliardi spesi per l’acquisto, altri 7 miliardi di debiti da onorare. Al tempo il governatore della Banca d’Italia, cioè dell’istituzione che avrebbe dovuto vigilare sull’operazione, era Mario Draghi. Quest’ultimo era anche presidente del Financial Stability Board, massimo organo di controllo del sistema finanziario internazionale. Capo della vigilanza della Banca d’Italia era Anna Maria Tarantola, cattolica, giunta in quella posizione grazie a Draghi nel 2006, mentre direttore generale era Fabrizio Saccomanni. Tutti personaggi promossi in seguito ad incarichi assai più prestigiosi. Difficile pensare che quelle promozioni, come la nomina di Draghi a presidente della Bce, siano state ottenute per aver vigilato con attenzione sulla gigantesca operazione.Regista dell’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps è stata dunque la finanza cattolica. In particolare la banca vicina all’Opus Dei – che solo per aver trasferito una banca sull’orlo del fallimento, l’Antonveneta, da Abn Ambro al Monte dei Paschi – ha guadagnato quasi 2 miliardi e mezzo di euro. Forse anche per questo gli inquirenti sono alla ricerca di una presunta tangente di oltre un miliardo che potrebbe essere transitata in parte sui conti dello Ior, conti che, come è noto, risultano quasi del tutto inaccessibili alle autorità giudiziarie extravaticane.
Quanto sommariamente qui ricostruito si trova descritto nei dettagli nel volume di E. Lannutti e F. Fracassi, Morte dei Paschi. Dal suicidio di David Rossi ai risparmiatori truffati. Ecco chi ha ucciso la banca di Siena (PaperFirs, 2017), al quale rimandiamo. Veniamo ora all’aspetto più doloroso della vicenda: quello del suo retroterra politico. Perché la politica qui c’entra, e molto, anche se questo è un terreno di indagine scivoloso e bisogna fare estremamente attenzione a non giungere a conclusioni affrettate. Eppure alcuni tasselli, come i puzzle di un mosaico, se accostati compongono una figura inquietante. Molti elementi invece mancano, e le domande che poniamo, al momento sono prive di risposte. Procediamo con ordine, lasciando al lettore ogni valutazione.
È certo che gli eredi del Partito comunista, i Democratici di sinistra, cercavano in quegli anni di ampliare la loro sfera di influenza nella finanza. Il tentativo di acquisto della Banca nazionale del lavoro da parte di Unipol, compagnia assicurativa storicamente vicina al loro mondo, era stato fermato dapprima dalle inchieste giudiziarie e da una campagna ostile dei mezzi di informazione, infine (nel gennaio 2006) dalla vigilanza della Banca d’Italia. Il potere politico, giudiziario e mediatico si scatenò dunque contro gli ex comunisti. Sebbene tutte le accuse contro Consorte e i dirigenti di Unipol che tentarono la scalata alla Bnl finirono con la loro completa assoluzione, Fassino e D’Alema (al tempo rispettivamente segretario e presidente del partito), che caldeggiavano l’operazione, ne uscirono comunque sconfitti. Di lì a pochi mesi però Prodi e la coalizione dell’Ulivo vincono le elezioni. Nell’ottobre del 2007 nasce il Partito democratico. L’inquietante domanda è se quello scellerato incontro tra finanza rossa e Opus Dei sulla pelle della più antica banca italiana, che non trovò invece ostacoli, possa aver costituito il collante di quella “fusione fredda”, come è stata definita, tra ex comunisti ed ex democristiani. Come peraltro “freddo” (cioè basato su interessi economici e clientelari) è l’accordo finanziario che l’avrebbe accompagnato.
Molte coincidenze, anche se nessuna prova, portano a pensarlo. A Siena, gli ex comunisti controllavano tramite gli enti locali la Fondazione del Monte dei Paschi, mentre la banca era appannaggio principalmente di socialisti ed ex democristiani. Già intorno al 2000 essi premevano per controllare anche la banca (riuscendoci infine nel 2006 con Mussari, storicamente vicino agli ex comunisti, che poi fu l’artefice dell’acquisto di Antonveneta), ma comunque il sistema di potere senese e la comunanza di interessi tra partiti anche in contrasto tra loro, e tra partiti e imprenditori vicini all’Mps come Berlusconi, Verdini, Ligresti e Caltagirone, facevano di Siena il luogo più adatto a rodare proficue alleanze. Considerate le aspirazioni degli ex comunisti, è possibile avanzare l’ipotesi che ad essi sia stato richiesto un prezzo per il pieno accesso al sistema di potere politico-finanziario, e che questo prezzo possa essere stato qualcosa a vantaggio della finanza cattolica e internazionale. Il fallimento della scalata alla Bnl, e il successo della ben più rischiosa acquisizione di Antonveneta, suggeriscono l’esistenza di uno scambio di questa natura. Nulla si sa di preciso della presunta tangente, ma, al di là di questa, vantaggi nell’operazione (sulla pelle della città di Siena) potevano essercene per tutti: gli ex comunisti e gli ex democristiani suggellavano il loro matrimonio, con i primi che guadagnavano la piena accettazione nei centri del potere economico, politico e finanziario; le alte sfere della finanza internazionale, grazie alla ben retribuita mediazione della finanza cattolica, smaltivano un “buco” di parecchi miliardi di euro.
La disastrosa operazione poteva anche restare nascosta nella montagna degli indecifrabili titoli-spazzatura che il sistema finanziario internazionale produceva. Difficile stabilire se, nel tempo, Mps avrebbe potuto smaltirne i costi, e a spese di chi, dato che le banche non creano ricchezza ma si limitano a gestire debiti e crediti. Purtroppo per i protagonisti però, essa coincise con la più grave crisi finanziaria che la storia ricordi. I derivati Alexandria e Santorini che furono varati per coprire i buchi di bilancio – su cui la magistratura sta indagando -, e i vari interventi pubblici (dai Tremonti Bond ai Monti Bond, fino al recente salvataggio del Monte per altri 6,6 miliardi a carico dello Stato) sono finiti così sotto l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica.
Non sappiamo quanto degli scontri e dei rancori sfociati nella scissione del Partito democratico guidata da Bersani e D’Alema possano a quella vicenda essere attribuiti, né su quali impervie strade si stiano avviando i protagonisti dell’attuale fase politica. Sappiamo solo che i tempi della vicenda Mps sono sovrapponibili, almeno in alcuni passaggi, alla parabola del Partito democratico e al suo esito ultimo, costituito dalla definitiva liquidazione di una famiglia politica e della sua storia. Gli ex comunisti hanno ridotto in macerie il loro centro di potere senese (e toscano) e hanno perso il partito, consegnandolo agli ex democristiani, dunque a Matteo Renzi.