left, 34 – 35; 20 e 27 agosto 2016
L’economia dell’informazione e la partita del futuro
di Andrea Ventura
di Andrea Ventura
Uno strano paradosso investe le economie dell’Occidente. Da un lato, a dispetto di stimoli monetari senza precedenti, la crescita economica è precaria e stentata: anche negli Stati Uniti, dove la politica monetaria è stata accompagnata da politiche fiscali espansive, la crescita del Pil è rimasta sotto le attese, generando un aumento del rapporto debito/Pil dal 64% del 2007 al 106% del 2015; L. Summers, economista e potente politico americano, assieme ad altri ha recentemente avanzato l’ipotesi che i paesi avanzati stiano attraversando una fase di “stagnazione secolare”. Questa crescita insufficiente si accompagna però ad un flusso d’innovazioni scientifiche e tecnologiche senza precedenti che sta radicalmente modificando il nostro modo di produrre, consumare, lavorare, comunicare.
Stagnazione secolare da un lato, innovazione e progresso dall’altro. Eppure la crescita economica è sempre stata favorita dalle scoperte scientifiche e tecnologiche: il telaio meccanico ha avviato la prima rivoluzione industriale inglese, poi motore a vapore, ferrovie, telegrafo e piroscafi hanno spinto la seconda. Catena di montaggio e consumi di massa hanno infine caratterizzato l’economia americana e, nel secondo dopoguerra, la crescita del continente europeo. L’informatizzazione dei processi produttivi, la diffusione della rete, la scoperta di nuovi materiali e la biologia molecolare sembrano invece incapaci di sostenere un nuovo ciclo di crescita economica. Siamo alla presenza di un temporaneo stallo dovuto all’inevitabile disequilibrio generato da cambiamenti tecnologici radicali, oppure, come afferma Paul Mason in un recente volume (Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, il Saggiatore, Milano 2016) queste nuove tecnologie stanno minando il capitalismo come l’abbiamo conosciuto finora?
Per discutere alcuni aspetti della questione, è necessario comprendere in via preliminare la differenza tra quelli che gli economisti definiscono come “beni privati” e i beni che invece hanno la caratteristica del “bene pubblico”. In estrema sintesi, i primi sono consumati su base individuale; i secondi invece si caratterizzano per il fatto che il consumo di un bene da parte di un individuo non esclude che lo stesso bene sia anche a disposizione di altri. Se ad esempio una notizia compare su un giornale cartaceo, per accedere a essa è necessario acquistare una copia del giornale stesso. Un articolo pubblicato on line, invece, è accessibile a centinaia di migliaia di persone a costi marginali nulli: a differenza della copia fisica del giornale, che se è in mano ad una persona non può essere al contempo nelle mani di un’altra, chiunque può disporre della pagina contenente l’articolo senza che qualcun altro sia limitato nell’accesso. Il punto è che, avendo le nuove tecnologie ridotto, e in molti casi eliminato, la necessità del supporto materiale per la diffusione di film, musica, immagini, giornali e notizie, quelli che prima erano smerciati sul mercato come beni privati, ora hanno assunto la caratteristica del “bene pubblico”.
In breve, ed è questa l’esperienza di ciascuno di noi, grazie allo sviluppo tecnologico, con quell’oggetto che qualche anno fa era solo un telefono cellulare, oggi abbiamo accesso a giornali, dizionari, guide turistiche, musica, mappe, carte stradali, oltre ad una serie di servizi su meteo, traffico, trasporti, viaggi, eventi etc. Grazie alla rete inoltre, la trasmissione delle informazioni tecniche e scientifiche su nuovi materiali, farmaci, ogm, come anche l’accesso a biblioteche e banche dati, è immediato e favorisce la ricerca e la diffusione delle nuove scoperte in tutto il mondo. Anche per questo, secondo alcuni studiosi, quello che stiamo osservando potrebbe essere solo l’inizio di un percorso destinato a modificare completamente il nostro modo di lavorare, consumare e comunicare.
In questa nuova fase dello sviluppo, pur restando ovviamente ancora essenziali il controllo diretto delle materie prime e della forza lavoro, i nostri sistemi economici saranno sempre più basati sulla conoscenza e l’informazione. E, mentre dal punto di vista delle imprese, materie prime e forza lavoro sono “beni privati” nel senso sopra definito, la scienza e l’informazione sono beni pubblici per eccellenza: il loro uso da parte di un’impresa non comporta che non siano disponibili anche per altre cento o centomila imprese.
Lo sconquasso generato da un’economia in stallo nelle produzioni tradizionali, e che invece sviluppa sempre di più tecnologia, servizi e informazione, è evidente. Anzitutto, come sostiene tra i tanti lo storico dell’economia Joel Mokyr, i tradizionali indicatori di produzione e di benessere divengono insensati. Per restare all’esempio precedente, i giornali venduti entrano nel Pil, l’informazione in rete no. In genere, se grazie al nostro iPhone acquistiamo meno beni fisici, il Pil si riduce, mentre i servizi cui accediamo, essendo gratuiti non lo fanno aumentare. In secondo luogo è l’intero sistema dei prezzi come tradizionalmente inteso che perde di significato. Nella teoria economica dominante, infatti, i prezzi dovrebbero porre in equilibrio i costi e i benefici delle merci, come anche la domanda e l’offerta. In un’economia basata sull’informazione, invece, si hanno due possibilità: o i prezzi sono nulli poiché la diffusione dei servizi e dell’informazione può avvenire appunto a costi nulli; oppure essi sono legati alla capacità delle imprese di ottenere una protezione legale o di sviluppare apposite tecnologie che limitino artificiosamente l’accesso al bene (Kindle per la lettura di libri, codici di protezione dei software, brevetti e simili).
Solo apparentemente però l’accesso ai servizi della rete è gratuito. Si pone qui un problema gigantesco, le cui implicazioni appaiono ancora oscure. Inconsapevolmente, infatti, noi paghiamo profumatamente Google, Facebook, Whatsapp, Linkedin e le varie applicazioni che scarichiamo fornendo informazioni ad alto valore commerciale su noi stessi. Non è chiaro come queste informazioni siano elaborate e utilizzate, certo però è che letture, ricerche in rete, acquisti, contatti, amicizie, spostamenti, stati d’animo (le faccette…) sono registrati, assemblati e venduti. Questa mole di dati ha un valore enorme in quanto permette alle imprese di fare pubblicità mirata, influenzare i gusti e produrre merci più appetibili per i consumatori. Anche la politica ne usufruisce: è possibile avere in tempo reale il polso sull’opinione pubblica, come anche impostare campagne elettorali in modo più efficace. Matteo Renzi, ad esempio, per la prossima campagna referendaria ha assunto come consulente Jim Messina, già coinvolto nelle campagne elettorali di Cameron e Obama, esperto di big data e dunque capace tra l’altro di individuare su quali soggetti puntare per convincerli a voltare Si, evitando di sprecare tempo e risorse verso elettori fermamente convinti a non votare o a votare per il No.
Rischi e opportunità caratterizzano dunque questa cosiddetta “economia dell’informazione”. Una visione pessimistica prefigura una società dove un pugno di imprese private controlla i nostri movimenti, le nostre scelte, e dispone del profilo personale di ciascuno di noi. La privacy è nulla: la quantità d’informazioni che spontaneamente forniamo ai padroni della rete, infatti, è immensa. Le imprese possono selezionare il personale ricorrendo a quelle informazioni – già oggi alcune società americane non assumono soggetti che siano privi del proprio profilo su Facebook -, le possibilità di controllo sui luoghi di lavoro e nella società crescono a dismisura, mentre politici facilmente ricattabili divengono sempre di più schiavi dei poteri economici dominanti. Tra l’altro la rete solo apparentemente è un luogo neutrale accessibile a tutti: in realtà poche imprese private controllano, tramite complessi algoritmi, cosa possiamo conoscere e comunicare più facilmente. Dunque la possibilità di manipolare la circolazione delle informazioni è notevole. Cresce la disoccupazione generata dall’informatizzazione dei processi produttivi, brevetti e licenze ostacolano la diffusione delle innovazioni, e profitti ingenti affluiscono a élite sempre più ristrette collocate in posizioni chiave. Il capitale, per la sua logica interna, deve ottenere profitti sempre crescenti e dunque avrebbe bisogno della crescita dei valori di scambio: se questa non può essere garantita dallo sviluppo delle nuove tecnologie, aumenterà la pressione a far profitti su sanità, istruzione, cultura, servizi pubblici, risorse naturali e ambiente.
Se sotto diversi aspetti questo è quello che stiamo osservando, è improbabile che nel lungo periodo una cerchia sempre più ristretta di persone possa mantenere la sua presa sull’economia e la società. Peraltro la perdita di controllo delle vecchie classi dirigenti è già evidente: in molti paesi le forze cosiddette “populiste” o “antisistema” raccolgono consensi crescenti; Trump, Sanders, Corbyn, Podemos, Syriza, il Movimento 5 Stelle, la Le Pen, la destra austriaca, i fautori del Brexit, nella loro radicale diversità queste forze devono il loro successo al disagio di strati sociali sempre più vasti che vedono compromesso il proprio futuro. Il modello politico bipolare, dove le elezioni si vincevano al centro e i due schieramenti finivano sempre più per assomigliarsi, è dunque già imploso, ma non è chiaro quali idee e quali forze potranno prevalere in futuro.
In una fase così incerta, è sterile cercare di prevedere quello che potrà riservarci il futuro. Più proficua appare invece la ricerca su come sia possibile influenzare la transizione in corso. Anzitutto è chiaro che l’idea del mercato come sfera autonoma si mostrerà sempre più una finzione: l’economia e la distribuzione del reddito saranno infatti sempre più dipendenti da scelte di carattere giuridico e politico. È dunque sul terreno del controllo dei processi decisionali che si giocherà la partita in futuro. Ma non è solo questo. Le tecnologie, infatti, sono un prodotto umano, e il loro utilizzo nella direzione del progresso, oppure del controllo sociale e della limitazione delle libertà, si gioca su un terreno più profondo, che prima di essere politico è antropologico e culturale.
Oltre la struttura economica, infatti, ogni periodo storico ha una sua consapevolezza, diciamo un “senso comune”, che lo definisce. Il modello keynesiano, cui spesso si fa riferimento, non era solo un modello di politica economica che comprendeva il ruolo attivo dello Stato e il coinvolgimento delle parti sociali: esso prometteva consumi di massa e benessere per tutti, e attorno a questo costruiva la sua egemonia culturale. Oggi prevale l’ideologia dell’individualismo, cioè l’idea thatcheriana che “la società non esiste” ma contano solo gli individui nei loro rapporti di mercato.
Nel suo volume Postcapitalismo, Paul Mason si chiede “come gli esseri umani debbano cambiare affinché una società post capitalistica possa affermarsi”. Questa è in effetti la domanda centrale: quale dovrà essere il senso comune di una società che sfrutta pienamente le potenzialità dell’economia dell’informazione? È anzitutto evidente che la combinazione tra le trasformazioni generate da questi cambiamenti tecnologici e il riferimento a una teoria – la teoria neoclassica – vecchia di oltre centocinquant’anni, ha già generato abbastanza sofferenza sociale. Ma, oltre la critica a quella teoria, è necessario che se ne demolisca il presupposto antropologico, cioè il riferimento all’uomo economico. Per riprendere il titolo di una sessione di lavoro del recente convegno all’Aula Magna dell’Università di Roma (Ricerca sulla verità della nascita umana. 40 anni di Analisi collettiva, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2016), un’economia post capitalistica dovrà dunque essere Un’economia senza uomo economico. Come osservato in precedenza, infatti, informazione, tecnologia e scienza sono beni pubblici, beni cioè per i quali l’accesso di un singolo individuo non esclude che sia possibile l’accesso anche per altri. Il loro uso, in sostanza, è un uso collettivo. Le stesse tecnologie dell’informazione, inoltre, hanno potuto svilupparsi usufruendo della formazione dei ricercatori, di fondi pubblici per la ricerca e della diffusione della cultura scientifica in genere. Se da un lato l’esproprio a favore di pochi è dunque anche per questo particolarmente odioso, dall’altro la potenzialità di questa economia possono pienamente svilupparsi se, oltre l’uomo economico che agisce in modo razionale massimizzando il proprio benessere individuale, si afferma un’idea di realizzazione personale e collettiva che, superato il piano della soddisfazione dei bisogni (del benessere fisico del corpo), comprenda quello della realizzazione delle esigenze. Quest’ultimo è peraltro il terreno sul quale si dispiega pienamente la socialità umana, dove la realizzazione di ciascuno – umana, culturale, artistica, scientifica o professionale che sia – non avviene a discapito ma si associa a quella degli altri. Possono affermarsi scienza e cultura in senso genuino, infatti, solo nella prospettiva della realizzazione umana di chi quella scoperta e quella dimensione culturale possiede, come anche di chi ne usufruisce.
Realizzazione delle esigenze, “beni pubblici” e sviluppo dell’economia basato sulla diffusione della conoscenza hanno dunque un terreno in comune dove non valgono il riferimento a un benessere misurabile con i prezzi di mercato, i criteri di calcolo razionale, o la logica dello sfruttamento del lavoro e della creatività altrui. Alla luce dei rapporti economici, sociali e politici odierni, immaginare una società basata sulla realizzazione delle esigenze appare indubbiamente come un’utopia. Questa però è un’utopia da perseguire per evitare che le enormi potenzialità delle nuove tecnologie si ritorcano contro il benessere e la libertà di tutti.